
Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi studi sulla «genealogia» del pensiero di Jorge Mario Bergoglio. A questo riguardo un libro di Massimo Borghesi ha esercitato un forte influsso[1]. Lo sfondo implicito nel quale si colloca il pensiero di Bergoglio sembra ispirarsi soprattutto all’antropologia di Romano Guardini e all’interpretazione che il filosofo Gaston Fessard ha dato degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Oltre a sottolineare l’influenza avuta su di lui da p. Miguel Ángel Fiorito, Francesco ha confessato, quando era già Sommo Pontefice, di avere una particolare ammirazione per due gesuiti francesi: Henri de Lubac e Michel de Certeau[2].
Sembra, quindi, che la «fenomenologia ermeneutica» di Paul Ricœur, se così possiamo chiamarla, non faccia parte dell’elenco delle correnti teologiche e filosofiche del percorso intellettuale di Bergoglio. Tuttavia, la presenza nel suo magistero del pensiero di questo filosofo protestante è indiscutibile.
In questo senso, ci proponiamo di approfondire qui le tre esplicite citazioni di Paul Ricœur che compaiono nei documenti del magistero di papa Francesco. Quindi cercheremo di mostrare due aspetti, inscindibilmente connessi tra loro, del magistero della Chiesa contemporanea. Da un lato, osserviamo che i riferimenti all’opera di Ricœur appaiono in un momento in cui il Papa sembra voler valorizzare il ruolo delle mediazioni istituzionali in relazione alla pratica concreta, stabile e duratura della carità. Dall’altro lato, la filosofia di Ricœur viene utilizzata nel contesto dell’affermazione di un’identità non sclerotizzata, tanto della persona umana quanto della Chiesa stessa. Nella forma di «identità narrativa», la Chiesa assume un’identità che è al tempo stesso ereditata dal passato e ancora da creare nel tempo a venire.
Vicinanza personale e istituzioni giuste: due dimensioni della carità
Nell’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti (FT), il riferimento a Ricœur compare per la prima volta nel n. 102. Affermando esplicitamente in una nota di essere stato «ispirato» da un testo di questo filosofo, il Papa discerne nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) la critica a un mondo in cui non c’è spazio per lo sviluppo della vicinanza personale, senza la quale non ci può essere la vera carità cristiana.
Chiusi nel loro status sociale, il levita e il sacerdote non si avvicinano a colui che giace «mezzo morto» sulla strada. In questo modo preservano i diritti che la società ha loro concesso, a scapito della vicinanza personale all’individuo concreto che, pur essendo di diversa condizione sociale, vive lo stesso mondo e percorre la stessa
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